Rosmini e l'eredità paterna - Rovereto città di A. Rosmini

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Rosmini, storia: episodi roveretani
A 23 anni usa l'eredità paterna per atti di carità

Il 21 gennaio 1820 muore, a 75 anni, Pietro Modesto, il papà di Antonio Rosmini, una morte improvvisa, poiché di salute stava bene. Così il ventiduenne Antonio si trova tra le mani ben quattro sesti dell'intero patrimonio familiare, valutato alla notevole cifra dei 600mila fiorini.1)

Una simile eredità avrebbe fatto girare la testa a qualsiasi persona, tanto più ad un giovane, allora come oggi: ma Antonio che fa?
Libero di usare a suo piacimento le sostanze paterne, e memore del proposito coltivato fin da ragazzino di consacrare sè stesso e le sue sostanze a gloria di Dio e a vantaggio dei fratelli, aiuta il prossimo con generosità ed intelligenza, man mano che gli si presentano richieste e bisogni. Gli amici, sapendolo caritatevole, si rivolgevano tranquillamente a lui, segnalando i bisogni di persone in difficoltà, certi che sarebbero stati eusaditi.2)
Sono rimasti biglietti e fogli volanti di amici, che non solo facevano da tramite per il bisognoso, ma talvolta lo mandavano direttamente al Rosmini: c'è un pover uomo che chiede «casa e campo»; una famiglia necessita di «camicie per otto o nove persone»; una povera donna chiede con insistenza «il chiodo della vaccherella»; un uomo debole e malaticcio «che pur mangia con cinque bocche, e avendo un debito vecchio gli pare quasi vedersi i birri all'uscio».3)
Tra i molti altri aiuti, anche di carattere intellettuale, che il diacono Rosmini dà in questo periodo, degno di nota è senz'altro quello concesso ad un giovane albanese, Antonio Bassich, nativo di un paese vicino Cattaro (Montenegro). Il Rosmini non si limita ad un  aiuto minimo, ma si prende a cuore la sua delicata situazione, coinvolgendo anche altre persone, fino a quando non lo sistema.

La vicenda del Bassich era alquanto delicata, perché c'era di mezzo una vocazione sacerdotale che rischiava di essere soffocata dall'egoismo e dalla cecità dei genitori del ragazzo. Il Bassich sentì la prima voce interiore, che lo chiamava al sacerdozio, già a nove anni, nel 1807, ma fu fin da subito fortemente contrastato dal padre e dalla madre. Nei successivi quattordici anni, essi fecero di tutto per fargli cambiare idea, tra cui imporgli lo studio del diritto, poiché il padre lo voleva giurista. Per rispetto a loro, si sottomise a tutto docilmente, anche nella speranza di rammollire il padre; ma ciò non avvenne. Finì con l'ammalarsi gravemente fino a rischiare di morire, ma riuscì a riprendersi. Decise allora di andarsene da casa, e, girovagando, giunse a Vienna. Qui ricevette una lettera con la quale il padre gli comunicava che gli avrebbe tagliato ogni mantenimento economico, lasciandolo sulla strada. 4)
Rovereto, Casa natale Rosmini, l'ingresso principale.
Pietro Modesto Rosmini, ritratto.
Pietro Modesto Rosmini,
papà di Antonio.
Grazie all'interessamento di alcune buone persone, nel dicembre del 1820 il Bassich giunge a Rovereto, dove viene presentato al Rosmini, che lo accoglie con la più ampia cordialità. Lo tiene ospite, a casa, presso di sè, mantenendolo in tutto, inclusi gli studi teologici per giungere al sacerdozio.
Chi più di lui, che si apprestava a diventare sacerdote di lì a pochi mesi (21 aprile 1821) avrebbe infatti potuto  comprenderlo?
Lo seguì nella sua vocazione, prima tentando di farlo entrare presso gli Oratoriani di San Filippo Neri di Verona, poi, nel Seminario di Trento. Falliti questi due tentativi, il Rosmini smosse l'abate Mauro Cappellari (futuro Gregorio XVI) a Roma, che mise il Bassich sotto la sua protezione.
Dal canto suo, il giovane albanese, persona moralmente retta e di grande fede, si fece ben volere da tutti, tanto che nel 1839 il Sommo Pontefice voleva nominarlo vescovo di Scutari. Ma l'umile Bassich rifiutò la proposta.5)
Per tentare di sciogliere la durezza dei genitori del Bassich, il Rosmini inoltre scrisse loro una lunga e commovente lettera a nome del figlio. 6)
Ne riportiamo uno stralcio, perché pensiamo possa essere utile ancor oggi:

«[...] Mi risponderanno che io voglio farmi ecclesiastico, e che essi non vogliono. Sì: questo è vero. Lo stato ecclesiastico è appunto quello ch’io sospinto dal mio dovere voglio abbracciare: il mio cuore lo desidera, la mia ragione il vuole. Ma e sarò io dunque colpevole perché seguo quello che farà la mia felicità in tutta la vita, e ricuso quello che in tutta la vita mi farebbe infelice? Mi ha dunque mio padre e mia madre dato al mondo per rendermi uno sventurato in tutti i miei giorni? Hanno essi cuore, miei carissimi genitori, di pretendere ch’io mi sacrifichi barbaramente ad un mero capriccio. Come si può concepire tal cosa? Come si può conciliare coll’animo tenero d’un padre e d’una madre? Non dovrebbero anzi questi desiderare la sola pace, la sola contentezza di quel figlio da cui non hanno mai ricevuto dispiaceri o disubbidienze? [...] O convien rinunciare alla religione, o credere che io debbo ubbidire più a Dio che agli uomini. Non si tratta della vita, ma dell’anima. [...] La voce della natura, il comando della ragione grida altamente, che i propri genitori debbono cercare di dare la vera felicità ai loro figli. Ma c’è oltre ciò la religione. [...] Se si crede a Dio, si creda adunque che più di tutte le ricchezze è il Sacerdozio di Cristo, più di tutti gli onori dell’universo, più degli scettri e delle corone stesse. [...]  Certissimo della grazia [la grazia che i genitori si ravvedano e cambino idea, N. d. R.], io già mi metto nella carriera degli studi ecclesiastici, la quale dovrei percorrere anche se si giusta e ragionevole grazia non mi si accordasse. Iddio che mi assiste da per tutto, tocchi i loro cuori e li renda pietosi verso di me, che sono in eterno e fino al sangue dei miei genitori dilettissimi affezionatissimo figlio».
Una volta divenuto sacerdote, il Bassich ritorna a Cattaro, dove svolge la sua missione. Rimarrà sempre in amicizia con il Rosmini, anche se i due manterranno più che altro contatti epistolari, vista la distanza geografica che li separava. Riconoscente di quanto avuto, il sacerdote albanese nutrirà sempre una grande stima per l'amico. Così lo ricorderà pochi giorni dopo la morte, avvenuta il primo luglio del 1855:

«[...] Al pari della scienza veniva in lui ammirata la modestia e la pietà; e la gentilezza delle maniere, l'inesausta sua carità gli attiravano l'amore di tutti. Il suo passaggio è certo a vita beata. Io venererò sempre, siccome venero in oggi la santa Sua memoria. Era il modello degli ecclesiastici, lo specchio dei cristiani. L'unico conforto che ora raddolcisce il mio dolore è la ferma fiducia che nel bel Paradiso prega per noi. [...]»7).
  
«La condivisione è un altro nome della povertà evangelica»
Papa Francesco



«La Chiesa, fin dagli inizi, ha accolto nel suo seno anche mercanti, precursori dei moderni imprenditori.  I “due denari” che il samaritano anticipa all’albergatore sono molto importanti: nel Vangelo non ci sono soltanto i trenta denari di Giuda; non solo quelli. In realtà, si può essere mercante, imprenditore, ed essere seguace di Cristo, abitante del suo Regno. La domanda allora diventa: quali sono le condizioni perché un imprenditore possa entrare nel Regno dei cieli? La prima è la condivisione. […] sappiamo di persone benestanti che facevano parte della prima comunità di Gesù, ad esempio Zaccheo di Gerico, Giuseppe di Arimatea, o alcune donne che sostenevano gli apostoli con i loro beni. […] nella Chiesa ci sono sempre state persone benestanti che hanno seguito il Vangelo in modo esemplare: tra questi anche imprenditori, banchieri, economisti, come ad esempio i Beati Giuseppe Toniolo e Giuseppe Tovini.  
Per entrare nel Regno dei cieli, non a tutti è chiesto di spogliarsi come il mercante Francesco d’Assisi; ad alcuni che possiedono ricchezze è chiesto di condividerle. La condivisione è un altro nome della povertà evangelica».

   
Roma, Aula Paolo VI,
Lunedì 12 settembre 2022.
Oggi come ieri...
Che cosa ciascuno di noi avrebbe fatto se avesse ricevuto in eredità tanto denaro, come capitò al Rosmini?

Nel suo insegnamento la Chiesa non ha mai disprezzato il denaro in sè, ma l'utilizzo distorto che se ne fa. Molti santi hanno venduto tutti i loro beni, prima di seguire Cristo, come San Francesco d'Assisi, ma altri sono riusciti a santificarsi, usando generosamente e saggiamente il denaro: è il caso di Antonio Rosmini. Entrambi hanno raggiunto la meta, la felicità.
Oggi il denaro - tolto Dio - è considerato una delle mete più ambite, il massimo dei valori, assieme al successo: ma questo cosa comporta? Siamo forse più felici?

L'essere umano è stato creato per la felicità, ma la felicità non sta nel possedere troppe cose, sta nell'amare, come ci dice anche papa Francesco:
«Essere felice è ciò a cui più anela l’essere umano. […] Sebbene tutti gli esseri umani desiderino la felicità, differiscono nei loro giudizi concreti su di essa: alcuni desiderano questo, altri quello. Oggi c’imbattiamo in un paradigma imperante, molto diffuso dal “pensiero unico”, che confonde l’utilità con la felicità, il divertirsi con il vivere bene e pretende di diventare l’unico criterio valido di discernimento. […]
Oggi vediamo che il mondo non è mai stato tanto ricco, eppure — nonostante tale abbondanza — la povertà e la disuguaglianza persistono e, cosa ancora peggiore, crescono. In questo tempo di opulenza, in cui dovrebbe essere possibile porre fine alla povertà, i poteri del pensiero unico non dicono nulla dei poveri, e neppure degli anziani, degli immigranti, dei nascituri, dei malati gravi. Invisibili per la maggior parte della gente, sono trattati come “scartabili”. [...]
Tenuto conto delle enormi risorse disponibili di denaro, ricchezza e tecnologia su cui contiamo, il nostro bisogno più grande non è né continuare ad accumulare né una maggiore ricchezza e più tecnologia, ma mettere in atto il paradigma sempre nuovo e rivoluzionario delle beatitudini di Gesù, a cominciare dalla prima: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 8) […]
Ma attenzione, Gesù non dice che sia una benedizione la povertà “materiale”, intesa come privazione del necessario per vivere dignitosamente: cibo, lavoro, casa, salute, vestiti, educazione opportunità, etc. […] I poveri in spirito sono ricchi di questo “istinto” dello Spirito Santo, sono ricchi di fraternità e desiderosi di amicizia sociale.  […] Già nel 1967 san Paolo VI scriveva nell’enciclica Populorum progressio: "Si sa con quale fermezza i padri della Chiesa hanno precisato quale debba essere l’atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: “Non è del tuo avere — afferma sant’Ambrogio — che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi". [...]
Tutti i nostri discorsi saranno però, come dice il detto, parole portate via dal vento, se non riescono a radicarsi e a incarnarsi nella vita dei giovani. Ciò esige da noi che lavoriamo con enfasi e speranza in modelli educativi capaci di promuovere nelle giovani generazioni lo spirito delle beatitudini [...]». 9)

Potremmo dire che, intelligentemente, il Rosmini, come del resto tutti i santi, sapeva dov'era la vera felicità.
Note:

1) PAGANI-ROSSI, La Vita di Antonio Rosmini, Arti Grafiche Manfrini (Rovereto) 1959, vol. I (II), p. 183. Gli altri due sesti dell'eredità andranno divisi a metà tra il fratello minore Giuseppe e la sorella Margherita. La preferenza del padre per Antonio, primogenito ma già vincolato dagli ordini sacri (quando il padre muore era suddiacono) stava nel fatto che il figlio Giuseppe aveva un carattere strano e incline a spendere, per cui assegnando la parte più grossa ad Antonio pensava di fare il bene della famiglia.
2) Ivi, p. 189.
3) Ibidem.
4) Ivi, p. 190.
5) Ivi, p. 191-192.
6) ROSMINI ANTONIO, Epistolario completo, I, Lettera 194, Rovereto marzo 1821, [Scritta da Rosmini a nome del Sig. Bassich]. In questa lettera si narra anche tutta la vicenda del Bassich, fino a quando conobbe il Rosmini.
7) Lettera di Antonio Bassich a don Francesco Paoli, Cattaro [Albania] 21 luglio 1855, in MENESTRINA EDUINO, Rosmini L'uomo e il santo - Testimonianze italiane ed europee, III (III), Fede & Cultura, Verona novembre 2011, pp. 194-195.
8)  «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi». Matteo 5, 3-12.
  
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